La prima epistola di Paolo ai Corinzi. Corinto era una delle città più malvagie dei tempi antichi e la giovane chiesa...
La Bibbia e la morte
Cos’è la morte?
La morte, sanzione per il peccato
Riguardo alla morte, l’insegnamento biblico è cristallino: essa è conseguenza e retribuzione del peccato.
Scegliendo di disubbidire a Dio nel giardino di Eden, Adamo ed Eva hanno fatto entrare la morte nel mondo creato.
Perciò, come per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per mezzo del peccato la morte, e così la morte è passata su tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato.
Romani 5:12
...il salario del peccato è la morte.
Romani 6:23
In 1 Corinzi 15:26 la morte è presentata come “l’ultimo nemico che sarà distrutto”.
“Non-mortale” e “immortale”
Le rivelazioni bibliche che presentano la morte come punizione del peccato potrebbero essere impugnate da quanti la ritengono un processo normale, naturale e comune a tutti gli esseri viventi a causa dell’invecchiamento
delle cellule.
L’obiezione è seria e merita una risposta.
Vi si può replicare che, pur affermando chiaramente che la morte dell’uomo è il castigo divino per il peccato dell’uomo, la Bibbia insegna che l’uomo è stato creato “non-mortale” e non immortale.
In effetti, nel libro della Genesi si stabilisce una certa corrispondenza tra il ritorno alla polvere e la formazione dell’uomo (vd. Genesi 3:19): essendo tratto dalla polvere, l’uomo ritorna in polvere.
Dunque la morte non è qualcosa di assolutamente estraneo all’essere umano, un elemento aggiuntivo e sovrapposto alla sua natura.
Adamo è l’uomo terrestre, terreno, legato alla terra.
È stato creato il sesto giorno, proprio come gli animali (e questi ultimi sembrano mortali per natura).
- Nella Scrittura la morte degli animali non è interpretata come un male. In alcuni testi biblici essa è descritta come parte dei decreti mirabili – e misteriosi – della saggezza del Creatore (vd. Giobbe 38:39-41; Salmo 104:27).
- Dio ha avvertito l’uomo: il giorno in cui questi avesse mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male sarebbe morto (vd. Genesi 2:17; in Genesi 3:19 la minaccia diventa effettiva).
Il fatto che l’uomo fosse in grado di capire l’avvertimento implica che la morte degli animali era probabilmente una realtà sin da allora.
Se ne può dedurre che Adamo non è stato creato immortale.
Diversamente, la morte subentrerebbe effettivamente come cambiamento metafisico, come una trasformazione radicale dell’essere umano: l’affermazione contenuta in Genesi 3:19 non si spiegherebbe.
Tuttavia, quale immagine di Dio, l’uomo è stato creato “non-mortale”: ciò significa che la vita eterna gli è stata offerta in dono dal Creatore e non come caratteristica naturale, una componente del suo essere.
Nel libro della Genesi ciò si evince dagli effetti che comporta la consumazione del frutto dell’albero della vita, simbolo della comunione con Dio.
Fintanto che aveva accesso a quell’albero (ossia godeva della comunione con Dio, fonte di vita) l’uomo non poteva morire.
Dal momento in cui gli è vietato l’accesso all’albero, come castigo per il peccato commesso, l’uomo muore.
Una volta in paradiso, l’uomo avrà nuovamente accesso all’albero della vita (vd. Apocalisse 2:7).
La morte... la fine dell’esistenza?
Ma che cosa è la morte?
Significa la fine dell’essere umano?
La fine del suo stato di coscienza?
La sua totale distruzione?
Molti difendono questa tesi semplicemente per non doversi preoccupare del “dopo”, dell’“aldilà”.
Tuttavia, dal punto di vista biblico, il “dopo” esiste.
Certo, morire significa cessare di vivere... ma non di esistere: con la morte la realtà dell’uomo non viene distrutta bensì trasformata.
Dunque la morte non è estinzione bensì transizione verso una diversa modalità di esistenza.
Per il credente essa perde il suo “pungiglione”: a motivo della sua speranza, il credente non è angosciato, né paralizzato dalla paura di morire.
Giobbe, per esempio, sa che colui che l’ha redento vive e sa che un giorno vedrà Dio (vd. Giobbe 19:25-26); per la stessa ragione Paolo afferma che per lui morire è un guadagno (vd. Filippesi 1:21-23) e ordina ai credenti in lutto di non cedere alla tristezza come gli altri che non hanno speranza (vd. 1 Tessalonicesi 4:13).
È Dio che fa vivere e morire: egli è sovrano sul soggiorno dei morti (vd. 1 Samuele 2:6; Salmo 139:8; Osea 13:14).
Tuttavia, se la vita continua dopo la morte, continua sotto un’altra forma.
Lo stato intermedio o soggiorno dei morti
Gli insegnamenti biblici nell’Antico Testamento
L’Antico Testamento fa spesso allusione al “soggiorno dei morti” (ebr. sheol). Questa definizione può indicare sia la tomba, il luogo di sepoltura (vd. Giobbe 17:13; Salmo 30:3, 9; Proverbi 7:27), sia la morte stessa (vd. Cantico 8:6; Isaia 28:15; Osea 13:14) oppure l’effettivo luogo dove si trovano i morti (vd. Giobbe 26:5-6; Isaia 14:9-12 ecc.).
Il soggiorno dei morti è paragonato a una trappola (Salmi 18:5; 116:3), a una fossa (Salmi 30:3; 88:6), al fango (Salmo 40:2), alla polvere e ai vermi (Giobbe 17:14-16; 21:26), alle tenebre e al disordine (Giobbe 10:21-22;
12:22; 15:22; 17:13; 18:18; 19:8; 28:3; 38:16-17), a una montagna di tormenti (possibile significato di “monte Misar”; Salmo 42:6).
Coloro che si trovano nel soggiorno dei morti non hanno più la possibilità di lodare Dio (Ecclesiaste 9:10; Salmo 6:5; Isaia 38:18) e non tornano più sulla terra (Giobbe 16:22; Ecclesiaste 9:6).
Il soggiorno dei morti è la dimora di tutti i morti: qui sono attesi sia i giusti che gli empi (vd. Giobbe 24:19).
Tuttavia, i morti non hanno tutti lo stesso destino: per alcuni il soggiorno dei morti è un luogo di schiavitù e corruzione (vd. 2 Samuele 22:6; Giobbe 7:9; Salmi 18:5; 23:4; 49:15-16; Isaia 38:10; 1 Pietro 3:19), ma alcuni (come, ad es.,Samuele) vi dimorano in pace (vd. 1 Samuele 28:15).
Cenni nel Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento lo sheol prende nomi diversi:
- quando indica la destinazione delle anime dei giusti è definito “paradiso” (Luca 23:43; 2 Corinzi 12:4), “seno di Abraamo” (Luca 16:22-23); “tavola” o “mensa” (dei patriarchi o del Signore; Matteo 8:11) e “sotto l’altare” (Apocalisse 6:9);
- quando indica la destinazione delle anime dei peccatori è detto ades (trad. gr. del lat. infernus e dell’ebr. sheol; vd. Luca 16:23; Atti 2:27) o “abisso” (Luca 8:31).
La parabola di Lazzaro e dell’uomo ricco dimostra che il destino eterno è diverso a seconda della condizione spirituale (di redenzione o di perdizione) dell’individuo (vd. Luca 16:19-31).
Il paradiso è presentato come un luogo di ristoro, di riposo e consolazione mentre l’ades è un luogo rovente di tormenti e torture (l’anima dannata, infatti, vi è descritta come assetata e inconsolabile).
Paolo riferisce di aver avuto una visione esaltante del paradiso (vd. 2 Corinzi 12:1-6) e Giovanni racconta di avervi trovato i ventiquattro anziani (vd. Apocalisse 4:4), i martiri (Apocalisse 6:9) e una folla immensa (Apocalisse 7:9).
L’ades, invece, è caratterizzato dalle tenebre (vd. Matteo 8:12; 22:13; 25:30; 2 Pietro 2:4).
L’apostolo Paolo si aspetta di ritrovarsi, dopo la morte, alla presenza di Cristo:
Sono stretto da due lati: da una parte ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio; ma, dall’altra, il mio rimanere nel corpo è più necessario per voi.
Filippesi 1:23-24
È possibile lasciare il soggiorno dei morti?
Secondo Tommaso d’Aquino Dio concederebbe alle anime di uscire dal soggiorno dei morti e di apparire ai vivi.
I dannati, per esempio, possono così servire, per concessione divina, a educare e intimorire.
Ciò che distinguerebbe gli abitanti del cielo da quelli dell’ades è la possibilità di apparire agli esseri viventi a proprio piacimento.
Del resto gli ospiti dell’ades sono più occupati a lamentarsi della loro triste sorte che ad apparire ai vivi.
Infine, anche se fossero in grado di spostarsi, le anime dei morti non potrebbero essere ovunque nello stesso tempo (non hanno il dono dell’ubiquità).
Tuttavia, in base alla parabola di Lazzaro e del ricco (in cui l’uomo ricco e malvagio chiede ad Abraamo la grazia di far tornare Lazzaro sulla terra per avvertire i suoi fratelli), le ipotesi formulate da Tommaso d’Aquino non possono essere prese in considerazione: le anime dei defunti non ritornano sulla terra poiché i vivi sono già stati avvertiti circa le cose che riguardano la fine mediante gli insegnamenti di Mosè e dei profeti (vd. Luca 16:27-31).
L’anima è immortale?
Per alcuni teologi (in particolare i Testimoni di Geova, gli avventisti e i critici) lo stato intermedio si trova nella memoria di Dio.
Lo spirito dell’uomo, la forza vitale che si stacca dal corpo quando questo ritorna alla polvere, si unisce a Dio che, solo, può ormai dargli la speranza di rivivere (vd. Ecclesiaste 12:9; Salmo 104:29-30).
A loro avviso, il concetto di immortalità dell’anima deriva dal pensiero greco (Socrate, Platone), non dalla Bibbia.
Essi sostengono che in realtà i morti che scendono nello sheol non hanno coscienza; non soffrono né possono influenzare i viventi.
Sono addormentati, veramente morti.
La risurrezione generale riguarda tutti, ma non tutti sussisteranno. Sussisteranno soltanto quanti rimangono nella memoria di Geova, coloro che avranno agito secondo la conoscenza di Dio.
Eppure la Bibbia afferma che l’anima vive per sempre.
È vero che, per sua natura, soltanto Dio è eterno, ma avendo creato gli uomini a sua immagine Dio ha concesso loro un futuro eterno (vd. p. 664). Stando alla testimonianza dell’Ecclesiaste, Dio ha instillato nell’uomo il pensiero dell’eternità (Ecclesiaste 3:11).
Infine, l’aggettivo “eterna” è usato indifferentemente sia per indicare la vita dei salvati che quella dei perduti (vd. p. 688).
Si può quindi affermare che, secondo la Scrittura, nel momento della morte il corpo dell’essere umano (sia del credente che del non credente) è temporaneamente separato dall’anima (vd. Ecclesiaste 12:9; 2 Corinzi 5:8-10; Filippesi 1:23; 2 Timoteo 4:6).
Il corpo ritorna alla polvere mentre l’anima si trova in uno “stato intermedio”: questo è lo stato in cui le anime attendono la risurrezione corporale, che avverrà in occasione del ritorno di Cristo, cui seguirà il giudizio al cospetto di Dio.
In tale occasione saranno loro assegnate due diverse destinazioni, secondo la natura del rapporto mantenuto con Dio durante la vita: i salvati andranno in paradiso, quanti avranno rifiutato la salvezza andranno nell’“anti-paradiso”, comunemente chiamato “inferno” ma meglio definito con l’espressione biblica “punizione eterna” (Matteo 25:46).
Il giudizio
Secondo la Bibbia, dopo la morte viene il giudizio:
...è stabilito che gli uomini muoiano una volta sola, dopo di che viene il giudizio.
Ebrei 9:27
Il concetto di “giudizio” oggi non è visto di buon occhio, tuttavia esso occupa un posto importante nella Bibbia.
Gesù vi accenna in molte delle sue parabole (vd. Matteo 18:23-35; 25:31-46). Il Dio giusto rende a ciascuno secondo le sue opere (vd. Geremia 51:56) condannando il male e ricompensando il bene.
Si tende spesso a contrapporre il Dio d’amore del Nuovo Testamento al Dio brutale, sanguinario, violento e vendicativo dell’Antico Testamento.
La realtà è più complessa, in primo luogo perché il Dio veterotestamentario viene presentato come un Dio di compassione e di amore (vd. Ezechiele 16) e, in secondo luogo, perché anche il Dio del Nuovo Testamento esercita la giustizia (vd. Apocalisse).
Un Dio che giudica
I giudizi terreni
Nel corso della storia umana, e della Bibbia, Dio interviene direttamente per punire alcuni tipi di comportamento ed esigere una riparazione.
Ciò avviene sia nel caso di coloro che non appartengono al suo popolo sia all’interno della Chiesa stessa (vd. il caso di Anania e Saffira in Atti 5:1-11).
Quelli che non appartengono al popolo di Dio
Uno dei casi di giudizio immediato che ci pongono più problemi è quello della conquista di Canaan per opera degli Israeliti.
Per ordine diretto di Dio, Giosuè è incaricato di sterminare tutti gli abitanti di Gerico, Ai, Maccheda, Lachis, Ebron ecc. (vd. Giosuè 11:12-23; 12:9-24).
Cosa spinge il Signore a prendere una simile decisione?
Non ama i Cananei quanto gli Ebrei?
È razzista, crudele o feroce?
E, se Dio è amore, come può volere la morte delle proprie creature?
No, Dio non è sadico, e neppure un bruto.
Se così fosse, questo sarebbe il suo consueto modus operandi.
Invece egli decide assai raramente di sopprimere una vita: un simile verdetto è riservato ad alcune situazioni particolari.
Quali?
Le popolazioni cananee commettevano delle mostruosità: erano soliti sacrificare i propri figli alle divinità (vd. Levitico 18:21), a vivere la sessualità in modo disumanizzante e devastante praticando l’incesto (vd. Levitico 18:7-10, 12, 14-16) e la zoofilia (vd. Levitico 18:23).
Dio ha creato l’essere umano a propria immagine (Genesi 9:6).
Ora, un’immagine è una rappresentazione di qualcosa o di qualcuno; quindi, in quanto immagine di Dio, l’essere umano ha il compito di rappresentare Dio. Benché in tutt’altre proporzioni, all’uomo spetta sforzarsi di essere giusto poiché Dio è giusto; poiché Dio è buono, all’uomo tocca sforzarsi di essere buono.
Dio vuole la vita e l’armonia per gli esseri umani; spetta agli uomini favorire la vita e l’armonia reciproche.
Dunque le pratiche di quelle popolazioni condannate da Dio erano inumane, indegne di rappresentare Dio.
In luogo della vita quei popoli davano la morte; in luogo dell’amore tra uomo e donna questi si abbandonavano a una sessualità destrutturante.
Non distinguevano più il bene dal male e non facevano altro che assecondare le proprie pulsioni.
Di fronte a un tale degrado fisico, morale e spirituale Dio ritiene di intervenire: la vita così snaturata non si poteva più considerare vita.
Inoltre, tali comportamenti erano dilaganti: Dio doveva intervenire prima che il suo popolo e gli altri popoli ne fossero influenzati.
Questo è purtroppo quanto sarebbe avvenuto in seguito: i pochi Cananei superstiti riuscirono a contaminare il popolo “santo”.
Si noti inoltre che la Bibbia richiama più volte alla memoria la pazienza dimostrata da Dio nei confronti di quei popoli, di cui già ai tempi di Abraamo lamentava la malvagità.
Dio “parcheggiò” dunque gli Israeliti in Egitto fino al momento in cui tale malvagità raggiunse il punto di non ritorno: “Alla quarta generazione essi torneranno qua; perché l’iniquità degli Amorei non è giunta finora al colmo” (Genesi 15:16).
Il più delle volte, quando gli uomini peccano, Dio ricorre a mezzi più moderati per farli tornare a sé.
Questo è il caso dei fratelli di Giuseppe: essi non morirono ma dovettero portare per vent’anni la colpa del loro crimine (vd. Genesi 37; 42–45).
Altre volte Dio deve ricorrere a mezzi più persuasivi, come nel caso di Giona, il profeta al quale permette di rischiare di morire annegato e fagocitato da un mostro marino (vd. Giona 1–2).
Talvolta, tuttavia, l’entità del male è tale da non lasciare adito ad alcuna possibilità di recupero.
Questo è il caso dei contemporanei di Noè, i cui pensieri erano “malvagi in ogni tempo” (Genesi 6:5), e degli abitanti di Sodoma e Gomorra, la cui perversione aveva toccato livelli estremi (vd. Genesi 18:20; 13:13).
I membri del popolo di Dio
Come possiamo giustificare le sanguinose guerre permesse da Dio ai danni degli Israeliti?
Al suo popolo non dovrebbe riservare un trattamento diverso rispetto a quello riservato agli stranieri?
Nell’Antico Testamento un evento in particolare dimostra che il Signore può essere assai severo con il suo popolo, tanto da permettere che alcuni dei suoi ci lascino la vita: la presa di Gerusalemme per opera dei Babilonesi. Infatti, il re Nabucodonosor entra nella città e fa trucidare giovani e vecchi, devasta il tempio e deporta i prigionieri (vd. 2 Cronache 36:17-21).
Come può Dio permettere una tale punizione?
La Scrittura cita diverse ragioni, riassunte con l’esempio del re Sedechia e dei suoi sudditi, i quali si ribellarono sia al Signore che al re di Babilonia, cui dovevano ubbidienza: i capi dei sacerdoti e l’intera popolazione “moltiplicarono... le loro infedeltà, seguendo tutte le abominazioni delle nazioni” (2 Cronache 36:11-14).
Ma Dio non si sarebbe potuto dimostrare misericordioso e paziente?
“Il Signore, Dio dei loro padri, mandò loro a più riprese degli ammonimenti, per mezzo dei suoi messaggeri, perché voleva risparmiare il suo popolo... ma quelli si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti, finché l’ira del Signore contro il suo popolo arrivò al punto che non ci fu più rimedio” (2 Cronache 36:15- 16).
Già in precedenza, durante il regno di Manasse, la situazione non poteva essere più disastrosa: “Ma essi non ubbidirono, e Manasse li indusse a far peggio delle nazioni che il Signore aveva distrutte davanti ai figli d’Israele” (2 Re 21:9); tuttavia, Dio ha aspettato un secolo prima di votare Gerusalemme alla distruzione.
Sia che si tratti di membri del suo popolo oppure di stranieri, il Signore non fa favoritismi.
Nessun essere umano può degradare l’umanità in tal modo senza rischiare di trovarsi ad affrontare il suo Creatore, la cui intromissione non è mai gratuita. Dio non vuole la morte dei suoi figli e perciò, nella sua grande misericordia, lancia loro innumerevoli avvertimenti.
Se, infine, il castigo colpisce il popolo di Dio, è per le stesse ragioni per cui si è abbattuto sui Cananei: l’immagine di Dio rischia di essere offuscata e vilipesa.
Dio della morte, dunque, o Dio della vita? Essendo egli stesso la vita, Dio afferma: “Io non mi compiaccio della morte dell’empio, ma che l’empio si converta e viva” (Ezechiele 33:11).
Lungi dall’essere sanguinario, Dio è il Dio d’amore.
Il fatto che talvolta sia dovuto intervenire in modo radicale non è dovuto al desiderio di togliere la vita agli uomini: Dio cercava di conservargliela intatta, per il bene delle sue creature.
Questo è ciò che ha fatto Gesù: è morto affinché noi avessimo la vita.
Il giudizio finale
Secondo la Bibbia tutte le opere umane, buone o cattive, palesi od occulte, saranno soggette al vaglio divino dopo la morte dell’individuo (vd. Ecclesiaste 12:16; 2 Timoteo 1:12, 18; 2 Pietro 2:4, 9; 1 Giovanni 4:17; Giuda 6).
Nel libro degli Atti leggiamo che Paolo ebbe un colloquio con il governatore Felice durante il quale gli parlò del giudizio futuro in relazione al comportamento presente (vd. Atti 24:25).
Il giorno del giudizio è talvolta presentato come il giorno dell’ira divina (vd., ad es., Apocalisse 6:16-17; 14:7).
- Quando avverrà?
Il giudizio universale, detto anche il giudizio del grande trono bianco, avverrà nel giorno della risurrezione finale, in cui il regno dei morti restituirà tutti i suoi prigionieri (vd. Apocalisse 20:11-13). - Chi giudicherà?
Il giudizio sarà pronunciato da Dio (vd. Giobbe 20:29; Abdia 15; Ebrei 12:23; 1 Pietro 1:17) e da Gesù (vd. Atti 10:42; 17:31; Romani 2:16; 2 Timoteo 4:1, 8), che conosce i più intimi pensieri e i desideri più nascosti di ognuno (vd. Apocalisse 2:23). - Chi sarà giudicato?
Saranno giudicati tutti i vivi e tutti i morti (vd. 2 Timoteo 4:1, 8; 1 Pietro 4:5; Apocalisse 20:12-13), così come l’intero cosmo, la terra e tutto ciò che è stato creato in essa (vd. 2 Pietro 3:10). - Con quali criteri?
Ciascuno risponderà per se stesso (vd. Romani 14:12) e sarà giudicato in base alle proprie azioni (vd. Apocalisse 20:12).
La retribuzione sarà commisurata alle opere e conforme a giustizia. Infatti, se il Dio di compassione può concedere ai peccatori la giustizia più perfetta (questa è la grazia!) non potrà fare a meno di applicare la giustizia più rigorosa, da cui il criterio obbiettivo delle opere.
La differenza tra i credenti e gli altri consisterà nel fatto che i peccati dei credenti saranno perdonati perché coperti dal sacrificio di Cristo mentre i peccati dei non credenti, non coperti dal sacrificio di Cristo, non saranno perdonati.
Un’infinità di opere buone non è in grado di cancellare un solo peccato: soltanto il sangue di Cristo (vale a dire la sua morte sacrificale) ha questo potere.
La risurrezione del corpo
Laddove il pensiero greco aveva del corpo e della carne una concezione negativa, la fede cristiana è ben lungi dal nutrire tanto disprezzo per la materia.
Nel giorno della risurrezione l’uomo riceverà un vero e proprio corpo (cfr. Luca 24:37-39) che sarà, però, un corpo glorificato, simile a quello del Cristo risorto e diverso dal corpo terreno.
Paolo, infatti, rivela che esso sarà incorruttibile, non soggetto a malattie e alla morte (vd. 1 Corinzi 15:42); il corpo glorioso sarà un corpo “spirituale” (vd. 1 Corinzi 15:44) ossia idoneo alla vita secondo lo Spirito.
Forse questo corpo sarà dotato di nuove funzionalità come quello del Cristo risorto, il quale poteva apparire o scomparire improvvisamente e attraversare i muri (vd. Giovanni 20:19).
In ogni caso vi sarà sia una continuità (saremo probabilmente in grado di riconoscerci gli uni gli altri come i discepoli sono stati in grado di fare, non senza qualche difficoltà, nel riconoscere Gesù risorto) che una discontinuità.
La risurrezione dei corpi è in antitesi rispetto alla reincarnazione.
Quest’ultimo è il principio, professato dall’induismo e dal buddhismo, secondo il quale dopo la morte l’anima passa da un corpo all’altro, da una vita all’altra – migliore o peggiore a seconda delle azioni compiute nella vita precedente. L’obiettivo è quello di sfuggire al ciclo delle reincarnazioni successive.
Questo concetto è incompatibile con la visione biblica, per la quale ogni essere umano è visto come un essere unico, irripetibile e insostituibile.
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Tratto da Fede Consapevole
Staff La Casa della Bibbia
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