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Libri della Bibbia: Giobbe
Titolo
Come avviene anche per altri libri della Bibbia, il libro di Giobbe ha per titolo il nome del personaggio principale della narrazione, che potrebbe derivare dal termine ebraico per “persecuzione”, con il significato di “colui che è perseguitato”, o da un termine arabo che significa “pentirsi”, nella fattispecie “colui che è pentito”.
L’autore narra di un periodo nella vita di Giobbe in cui quest’ultimo fu messo alla prova e il carattere di Dio fu rivelato.
Gli scrittori neotestamentari citano Giobbe in maniera diretta due volte (Ro 11: 35; 1 Co 3: 19).
Inoltre, Ez 14: 14, 20 e Gm 5: 11 mostrano come Giobbe fosse un personaggio reale.
Autore e data
Il libro non menziona il nome del suo autore.
Giobbe è un improbabile candidato alla paternità del libro, dal momento che il messaggio in esso contenuto prende le mosse dall’ignoranza di Giobbe degli eventi celesti legati alla sua prova.
Una tradizione talmudica riconosce in Mosè l’autore, dal momento che il paese di Uz (1: 1) era adiacente a Madian, dove Mosè visse per 40 anni e dove avrebbe potuto apprendere un resoconto della storia.
Salomone è un altro candidato possibile, alla luce della somiglianza contenutistica del libro con brani dell’Ecclesiaste e del fatto che fu lo stesso Salomone a comporre tutti gli altri libri sapienziali (fatta eccezione per i Salmi, dove soltanto i Sl 72 e 127 sono scritti di suo pugno).
Sebbene egli sia vissuto molto tempo dopo Giobbe, Salomone avrebbe comunque potuto narrare eventi che avevano avuto luogo prima della sua epoca, nello stesso modo in cui Mosé fu ispirato da Dio affinché scrivesse riguardo ad Adamo ed Eva.
Eliu, Ezechia, Geremia ed Esdra sono altri nomi che rientrano nel novero degli autori suggeriti dagli studiosi, tuttavia senza sostegno adeguato.
La redazione del libro può risalire a un’epoca di molto posteriore al periodo in cui ebbero luogo gli eventi narrati.
Questa conclusione si basa su diversi fattori:
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l’età di Giobbe (42: 16);
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il corso della sua vita di quasi 200 anni (42: 16) rispecchia un dato proprio del periodo patriarcale (Abraamo visse 175 anni; Ge 25: 7);
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il nucleo sociale rappresentato dalla famiglia patriarcale;
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i Caldei che uccisero i servi di Giobbe (1: 17) erano nomadi, non avevano ancora formato insediamenti urbani;
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la misurazione della sua ricchezza si basa sul novero dei suoi armenti piuttosto che sul computo del suo oro e del suo argento (1: 3; 42: 12);
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le funzioni sacerdotali di Giobbe all’interno della sua famiglia (1: 4-5);
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un sostanziale silenzio riguardo a questioni quali: il patto con Abraamo, Israele, l’esodo e la legge di Mosè.
Gli eventi dell’odissea di Giobbe hanno un contorno tutto patriarcale.
Giobbe, d’altro canto, pareva essere a conoscenza di Adamo (31: 33) e del diluvio di Noè (12: 15).
Queste caratteristiche storico-culturali riscontrate nel libro paiono collocare cronologicamente gli eventi dopo Babele (Ge 11: 1-9), ma prima o contemporaneamente ad Abraamo (Ge 11: 27ss.).
Contesto e ambiente del libro di Giobbe
Il libro si apre con una scena in cielo che funge da cornice esplicativa per il lettore (1: 6–2: 10).
La sofferenza di Giobbe era dovuta a una sorta di sfida tra Dio e Satana.
Giobbe non conobbe mai questo particolare e nemmeno i suoi amici; per questo tutti loro si sforzarono di spiegare la sofferenza dal punto di vista della loro ignoranza, finché Giobbe non ripose la sua fiducia in nient’altro che nella bontà di Dio e nella speranza della sua redenzione.
Il fatto che Dio abbia reso giustizia alla fiducia del suo servo è il messaggio culminante del libro.
Laddove non esistano spiegazioni razionali o teologiche per la sconfitta e la sofferenza, siamo chiamati a confidare in Dio.
Temi storici e teologici
Le circostanze e gli eventi che accompagnano le sofferenze di Giobbe pongono importanti interrogativi ai credenti di ogni età.
Cosa spinge Giobbe a servire Dio?
Giobbe è per Dio emblema di giustizia, alla stregua di Noè e di Daniele (Ez 14: 14-20), ed è altresì un esempio di perseveranza spirituale (Gm 5: 11).
La prova di Giobbe solleva poi ulteriori interrogativi, come p. es.:
“Perché soffre il giusto?”
Sebbene una risposta a siffatta domanda possa sembrare importante, il libro non soddisfa chi la pone.
Giobbe non conobbe mai le ragioni della sua sofferenza e tanto meno i suoi amici.
Il giusto sofferente non pare apprendere alcun particolare riguardante i confronti che hanno luogo nel tribunale celeste fra Dio e Satana e che generano la sua sofferenza.
Quando, infatti, si trova dinanzi al Signore dell’universo, Giobbe mette una mano sulla propria bocca e tace.
La silenziosa reazione di Giobbe non ridimensionò in alcun modo il profondo dolore e la grave perdita da lui subita; piuttosto, essa non faceva che mettere in evidenza l’importanza di confidare nei disegni di Dio nel mezzo della sofferenza, dal momento che essa, come ogni altra esperienza umana, è guidata dalla perfetta sapienza di Dio.
In ultima analisi, la lezione impartita era che nessuno può conoscere la ragione specifica della propria sofferenza; bisogna, pertanto, confidare nella sovranità di Dio.
È questa la vera risposta al problema della sofferenza.
Il libro tratta due temi principali e diversi temi secondari, tanto nella cornice del prologo (capp. 1–2) quanto nell’epilogo (42: 7-17) e ancora nel resoconto poetico centrale del tormento di Giobbe (3: 1–42: 6).
Una chiave per comprendere il primo tema del libro può essere individuata analizzando la relazione fra il confronto celeste tra Dio e Satana e i tre cicli di dibattiti terreni fra Giobbe e i suoi amici.
Dio voleva dimostrare a Satana, ai demòni, agli angeli e agli uomini tutti, quale fosse il carattere dei credenti.
È Satana a sollevare le accuse secondo cui le affermazioni divine riguardo alla giustizia di Giobbe non sarebbero comprovate, ma discutibili.
Satana accusava i giusti di fedeltà a Dio unicamente sulla base del proprio tornaconto.
Dal momento che le motivazioni del servizio divino di Giobbe erano, secondo Satana, impure, l’intero rapporto fra lo stesso Giobbe e Dio rappresentava una finzione.
La certezza di Satana di poter portare Giobbe a ribellarsi contro Dio era alimentata, indubbiamente, dalla memoria della ribellione dei santi angeli da lui condotta (vd. nota ad Ap 12: 4).
Satana ritenne di poter distruggere la fede in Dio di Giobbe per mezzo della sofferenza, mostrando pertanto, in linea di principio, la vulnerabilità della fede salvifica.
Dio concesse a Satana la possibilità di dimostrare quanto sostenuto, ma egli fallì, poiché la vera fede nel Signore si dimostrò indistruttibile.
Persino la moglie di Giobbe lo invitò a maledire Dio (2: 9), ma egli rifiutò: la sua fede non crollò mai (vd. 13: 15).
Satana cercò di fare la stessa cosa con Pietro (vd. Lu 22: 31-34), ma, ancora una volta, fallì nel tentativo di distruggerne la fede (vd. Gv 21: 15-19).
Anche quando Satana scatena tutta la sua potenza per abbattere la fede salvifica del credente, essa non può crollare (cfr. Ro 8: 31-39).
Alla fine Dio dimostrò a Satana che la fede salvifica è indistruttibile, a prescindere dalla sofferenza che un santo è costretto a sopportare e da quanto incomprensibile e immeritata essa possa apparire.
Un secondo tema collegato al precedente riguarda la manifestazione del carattere di Dio dinanzi agli uomini.
Le prove a cui è sottoposto il giusto e che scaturiscono da una sfida nei luoghi celesti suggeriscono forse che Dio manca di compassione e di misericordia verso i suoi servi?
Niente affatto!
La narrazione dimostra l’esatto contrario (42: 10-17).
Come afferma Giacomo:
"Avete udito parlare della costanza di Giobbe, e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è pieno di compassione e misericordioso” (Gm 5:11).
Giobbe, dal canto suo, afferma:
“Abbiamo accettato il bene dalla mano di Dio, e rifiuteremmo di accettare il male?” (2: 10).
Il servo di Dio non nega di avere sofferto, ma nega che la sua sofferenza sia una conseguenza del peccato.
Giobbe non ne comprende la ragione, ma, con un cuore consacrato colmo di adorazione e di umiltà (42: 5-6), affida semplicemente la sua prova a un Creatore sovrano e sommamente sapiente.
Ed è proprio questo che Dio voleva che Giobbe imparasse attraverso questo conflitto con Satana.
Alla fine, Dio riversò su Giobbe più benedizioni di quante ne avesse mai conosciute prima.
Il nucleo tematico del libro resta l’imperscrutabile mistero della sofferenza di un innocente.
Dio preordina che i suoi figli sperimentino dolori e sofferenze, talvolta a causa del peccato (cfr. Nu 12: 10-12), talvolta quale castigo (cfr. Eb 12: 5-12), talvolta per fortificarli (cfr. 2 Co 12: 7-10; 1 P 5: 10) e talvolta per creare le circostanze adatte alla rivelazione della sua consolazione e della sua grazia (2 Co 1: 3-7).
Tuttavia, a volte la ragione della sofferenza dei santi è ignota, essendo legata a un disegno celeste che gli esseri umani non riescono a discernere (cfr. Es 4: 11; Gv 9: 1-3).
Giobbe e i suoi amici volevano analizzare la sofferenza, cercarne le cause e trovare una giusta soluzione.
Con tutta la loro sana teologia e introspezione nella vicenda, essi giunsero solamente a inutili ed errate conclusioni, per le quali Dio alla fine li rimproverò (42: 7).
Essi non potevano sapere perché Giobbe stesse soffrendo, poiché erano all’oscuro di ciò che aveva avuto luogo nelle sfere celesti fra Dio e Satana.
Essi credevano di conoscere tutte le risposte, ma non fecero che aggravare il problema con la loro insistente ignoranza.
Se consideriamo alcuni degli elementi di questo grande tema, potremo riscontrare le seguenti verità nell’esperienza di Giobbe.
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Vi sono questioni celesti legate alla persona di Dio di cui i credenti non sanno nulla, ma che hanno ripercussioni sulla loro vita.
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Persino lo sforzo più intenso per spiegare i problemi della vita può rivelarsi vano.
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I figli di Dio soffrono.
Le sofferenze toccano continuamente i giusti come gli ingiusti, pertanto non è possibile giudicare la spiritualità di una persona sulla base delle sue penose circostanze o dei suoi successi. -
Sebbene Dio possa sembrare lontano, la perseveranza nella fede è una virtù sommamente nobile, poiché Dio è buono e l’uomo può abbandonare fiduciosamente la propria vita nelle sue mani.
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Il credente non dovrebbe abbandonare Dio nel mezzo delle sofferenze, bensì avvicinarsi a lui, cosicché dalla comunione possa procedere la consolazione, pur non ottenendo una spiegazione in merito.
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La sofferenza può essere profonda, ma alla fine essa terminerà per il giusto, che allora riceverà l’abbondante benedizione divina.
Sfide interpretative
La sfida interpretativa più significativa riguarda il messaggio principale del libro.
Sebbene spesso indicata come la questione più pressante della narrazione, la ragione della sofferenza di Giobbe non è mai rivelata al protagonista.
Essa trascende completamente la capacità di Giobbe di comprenderla.
Solo il lettore è a conoscenza dell’antefatto.
Riferendosi a Giobbe, Giacomo conclude che la ragione della sofferenza di Giobbe risiedeva nella volontà divina di manifestare la propria compassione e misericordia (Gm 5: 11).
Senza apologie di alcun tipo, Giacomo non offre alcuna spiegazione riguardo alla specifica prova di Giobbe.
Il lettore deve dunque restare in silenzio, non avendo alcun diritto di mettere in discussione o di accusare l’onnisciente e onnipotente Creatore, che compie ogni cosa secondo il consiglio della propria volontà.
Così facendo, Dio dimostra da un lato la perfezione del proprio disegno nella sfera spirituale dinanzi ad angeli e demòni e, dall’altro, definisce la natura della sua compassione e misericordia.
Il ricorso alla “teodicea”, ovvero il tentativo dell’uomo di giustificare il coinvolgimento di Dio nelle calamità e nella sofferenza, si dimostra appropriato in questi casi, benché, alla fine, sia palese che Dio non ha bisogno di un avvocato umano e neppure lo desideri.
Il libro di Giobbe ben illustra De 29: 28:
“Le cose occulte appartengono al Signore nostro Dio…”.
La natura della colpa e dell’innocenza di Giobbe solleva interrogativi sconcertanti.
Dio ha dichiarato Giobbe perfetto, giusto, un uomo timorato di Dio, che fuggiva il male (1: 1).
Ma i consolatori di Giobbe sollevarono una critica alla luce della sua prova: non aveva egli forse peccato?
In diverse occasioni egli ammise prontamente il suo peccato (7: 21; 13: 26) ma, allo stesso tempo mise in evidenza lo squilibrio esistente fra la natura del suo peccato e la profondità della sua sofferenza.
Alla fine Dio rimproverò Giobbe per la sua richiesta di essere giustificato dinanzi alle accuse dei suoi detrattori (38–41), ma egli dichiarò altresì che quanto Giobbe aveva affermato era corretto, mentre le parole dei presunti consolatori erano false (42: 7).
Un’altra sfida ci viene dalla necessità di tener separate le conclusioni a cui Giobbe e i suoi amici giunsero in riferimento alla prova a cui egli fu sottoposto.
All’inizio tutti erano d’accordo sul fatto che Dio punisce il male e premia l’ubbidienza, e che a questa regola non esistono eccezioni.
Tuttavia, dinanzi alla sofferenza, Giobbe fu costretto a concludere che sono possibili delle eccezioni, dal momento che anche i giusti soffrono.
Egli osservò altresì che gli empi prosperano.
Queste rappresentano più che piccole eccezioni alla regola, che portarono Giobbe a riconsiderare la sua semplice comprensione della sovrana interazione di Dio con il suo popolo.
Il tipo di saggezza che Giobbe finì con l’acquisire non dipendeva meramente dalla promessa di ricompensa o di castigo.
Le lunghe e irose dispute fra Giobbe e i suoi detrattori costituivano dei tentativi di riconciliare le disparità di retribuzione divina percepite nell’esperienza di Giobbe.
Un siffatto metodo empirico è pericoloso.
Alla fine Dio non diede a Giobbe alcuna spiegazione, ma chiamò piuttosto tutte le parti a una fiducia più profonda nel Creatore, che regna su un mondo in preda al peccato con potenza e autorità guidate da perfetta sapienza e misericordia.
Per comprendere questo testo è necessario:
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comprendere la natura della sapienza, e in particolare la differenza fra la sapienza umana e la sapienza divina;
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ammettere che a Giobbe e ai suoi amici mancò la sapienza divina per leggere le circostanze nel modo giusto, sebbene poi i suoi amici abbiano continuato a cercare di affermare la loro sapienza, mentre Giobbe, dal canto suo, imparò a trovare pace nella sovranità e nella misericordia di Dio.
Il punto di svolta a questo riguardo si trova in Gb 28, dove il carattere della sapienza divina è rivelato: la sapienza divina è rara e inestimabile; l’uomo non può sperare di acquistarla, poiché essa appartiene totalmente a Dio.
Noi possiamo non sapere ciò che avviene in cielo o quali siano i disegni di Dio, ma dobbiamo riporre in lui la nostra fiducia.
Per questa ragione la questione della sofferenza dei credenti è legata a filo doppio alla sapienza di Dio.
Schema del libro
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Il dilemma (1:1–2:13)
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Introduzione di Giobbe (1:1-5)
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Confronto fra Dio e Satana (1:6–2:10)
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Arrivo degli amici (2:11-13)
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I dibattiti (3:1–37:24)
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Primo ciclo (3:1–14:22)
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Primo discorso di Giobbe: riflette la sua disperazione (3:1-26)
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Primo discorso di Elifaz: indica sommessamente una strada di umiltà e di pentimento (4:1–5:27)
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Replica di Giobbe a Elifaz: riflette angoscia e solleva interrogativi riguardo alla natura delle prove, invocando compassione nel suo dolore (6:1–7:21)
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Primo discorso di Bildad: accusa Giobbe di contestare Dio (8:1-22)
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Risposta di Giobbe a Bildad: ammette di non essere perfetto, ma di avere il diritto di contestare ciò che pare ingiusto (9:1–10:22)
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Primo discorso di Zofar: è un’esortazione rivolta a Giobbe affinché metta a posto la sua vita dinanzi a Dio (11:1-20)
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Risposta di Giobbe a Zofar: rimprovera i suoi amici per il loro atteggiamento, poiché solo Dio conosce la verità e auspica che si riveli (12:1–14:22)
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Secondo ciclo (15:1–21:34)
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Secondo discorso di Elifaz: accusa Giobbe di presunzione e di disprezzo per la saggezza degli antichi (15:1-35)
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Risposta di Giobbe a Elifaz: si appella a Dio contro i suoi ingiusti accusatori (16:1–17:16)
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Secondo discorso di Bildad: dice a Giobbe che la sua sofferenza è meritata (18:1-21)
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Risposta di Giobbe a Bildad: invoca la pietà di Dio (19:1-29)
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Secondo discorso di Zofar: accusa Giobbe di rigettare Dio mettendo in discussione la sua giustizia (20:1-29)
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Seconda risposta di Giobbe a Zofar: lo accusa di avere perso il contatto con la realtà (21:1-34)
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Terzo ciclo (22:1–26:14)
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Terzo discorso di Elifaz: accusa Giobbe di aver criticato la giustizia di Dio (22:1-30)
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Risposta di Giobbe a Elifaz: afferma di sapere di essere senza colpa e tuttavia Dio, nella sua provvidenza e nel suo disegno purificatore, permette che gli empi prosperino temporaneamente (23:1–24:25)
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Terzo discorso di Bildad: si fa beffe dell’invocazione diretta di Giobbe a Dio (25:1-6)
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Risposta di Giobbe a Bildad: afferma che Dio è realmente perfetto nella sua saggezza e assolutamente sovrano, ma non nel senso semplicistico in cui essi lo intendono (26:1-14)
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Arringa fi nale di Giobbe (27:1–31:40)
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Primo monologo: Giobbe afferma la propria giustizia e la verità secondo cui l’uomo non può sondare la sapienza di Dio (27:1–28:28)
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Secondo monologo: Giobbe ricorda il passato, descrive il presente, difende la propria innocenza e chiede a Dio di difenderlo (29:1–31:40)
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Discorsi di Eliu (32:1–37:24)
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Eliu entra nel dibattito per uscire dall’impasse (32:1-22)
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Eliu accusa Giobbe di presunzione nel criticare Dio, non riconoscendo che Dio ha forse un disegno amorevole nel permettere la sua sofferenza (33:1-33)
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Eliu dichiara che Giobbe ha messo in discussione l’integrità divina con la sua affermazione secondo cui condurre una vita pia non paga (34:1-37)
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Eliu esorta Giobbe a sperare pazientemente nel Signore (35:1-16)
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Eliu crede che Dio stia disciplinando Giobbe (36:1-21)
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Eliu sostiene che difficilmente degli osservatori umani possono sperare di comprendere in maniera adeguata le vie di Dio nell’amministrare giustizia e misericordia (36:22–37:24)
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La liberazione (38:1–42:17)
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Dio risponde a Giobbe (38:1–41:34)
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Prima risposta di Dio a Giobbe (38:1–40:2)
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Risposta di Giobbe a Dio (40:3-5)
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Seconda risposta di Dio a Giobbe (40:6–41:26)
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Giobbe confessa, adora e gli è resa giustizia (42:1-17)
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Giobbe si umilia (42:1-6)
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Dio rimprovera Elifaz, Bildad e Zofar (42:7-9)
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Dio restituisce a Giobbe una famiglia, ricchezza e lunga vita (42:10-17)
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Testo tratto da La Sacra Bibbia con note e commenti di John MacArthur
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