Il prezzo della fedeltà al testo sacro
Ecco, ti ho posto davanti una porta aperta, che nessuno può chiudere, perché, pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome (Apocalisse 3:8).
Quando nel III sec. a.C., Tolomeo Filadelfo fece tradurre gli scritti ebraici in greco, il mondo civilizzato si esprimeva nella lingua di Platone.
Da un lato, la cultura ellenica esercitava la sua influenza su tutte le rive del Mediterraneo; dall'altro, le conquiste di Alessandro l'avevano fatto penetrare fin quasi nel cuore dell'Asia. La diffusione del greco, prima lingua «universale», determinò così il successo della Versione dei Settanta, che mise progressivamente in ombra il testo originale ebraico, il cui uso rimaneva isolato entro gli stretti limiti della Palestina.
Nel IV sec. dell'era cristiana, la situazione si era modificata. Soltanto il ceto istruito si esprime ancora in greco, lingua che si parlava correntemente solo sulle rive del mare Egeo. Il latino è diventata la lingua ufficiale dell'impero romano, in quel momento all'apice della sua gloria. Le legioni romane lo impongono in tutti i territori conquistati. Come tanti altri, i cristiani devono adottarlo a loro volta, ed è così che i loro scritti sacri, redatti in greco, sono compresi solo da una minoranza di fedeli. La Parola divina s'allontanò poco per volta dall'esperienza quotidiana dei credenti. Un tale allontanamento è sempre dannoso. Nel nord dell'Africa, intere comunità sono private di nutrimento spirituale, perché l'accesso al testo biblico è riservato solo a certi eruditi Secondo la testimonianza degli storici, questa situazione provocherà il lento declino delle chiese africane disseminate a partire da due centri spirituali un tempo fiorenti, Alessandria e Cartagine; sarà all'origine della disfatta del cristianesimo in questa regione, di fronte all'invasione dell'Islam nel VII sec.
Alla fine del III sec., ci furono servitori di Dio pienamente coscienti di questa grave lacuna. Si erano intrapresi diversi tentativi di traduzioni bibliche in latino, senza che alcune di esse fosse esaurienti.
Damaso 1°, vescovo di Roma dal 366 al 384 - il titolo di papa compare solo più tardi nella storia - espose il problema al suo primo segretario, Hieronymus, più conosciuto con il nome di Girolamo (332-420). Questa scelta era molto saggia. Girolamo era un erudito che sapeva esprimersi perfettamente nelle lingue dei testi originali e al tempo stesso un uomo profondamente umile, che amava Dio e desiderava fare la Sua volontà. Si dice che dapprima Girolamo fu riluttante di fronte alla proposta di tradurre la Bibbia nella lingua di Virgilio: «È un lavoro ingrato - disse - riuscirà solo a scontentare coloro che hanno pregiudizi e a suscitare il rancore di coloro che pensano che ignoranza e santità sono una cosa sola».
Girolamo era un uomo integro, fedele all'insegnamento della Scrittura; egli aveva anche il coraggio delle sue opinioni. Egli seppe staccarsi in tempo dalle correnti filosofiche che trascinavano gli ecclesiastici dell'epoca e dalle diverse eresie che affliggevano la cristianità. Girolamo non soltanto si mise a tradurre i testi sacri, ma volle raddrizzare le tendenze e riportare i vescovi a pratiche più conformi alla dottrina biblica. Evidentemente, questo non piacque a tutti; si tramavano inganni intorno alla sua persona; lo si accusò di voler «giudaizzare» la Chiesa, riprendendo così il termine usato da Paolo nel rimproverare Pietro (cf. Galati 2:14). Alla morte di Damaso 1°, Girolamo avrebbe dovuto esserne il successore; fu esonerato da questa carica con il vantaggio di lasciargli tutto il tempo necessario per la sua traduzione.
Nel 382 aveva iniziato il Nuovo Testamento. Nel 385, s'impegnò sull'Antico Testamento e a questo scopo si recò in Palestina, per consultare i dottori ebrei, specialisti del testo ebraico. Girolamo era stato pregato di trascrivere la Versione greca dei settanta in latino. Dapprima, egli cercò di attenersi agli ordini ricevuti; poi, stanco di radunare frammenti che nessun «rattoppo» poteva migliorare, prese una decisione coraggiosa: quella di risalire alle sorgenti, traducendo l'Antico Testamento a partire dall'originale ebraico.
Girolamo passò 19 anni a Gerusalemme. Oggi si mostra ai turisti la grotta in cui egli compì la sua opera; questa è situata in prossimità di un'altra grotta che era servita da scuderia, luogo presunto della nascita di Gesù Cristo. La Basilica della Natività si erge al di sopra di questi luoghi storici; essa è il luogo di incontro di molti pellegrini, soprattutto verso Natale.
Girolamo aveva ricevuto la missione di tradurre tutti i libri inclusi nella Versione dei Settanta, compresi i racconti profani che erano stati aggiunti agli scritti ispirati. Ricordiamo che Tolomeo Filadelfa, nella sua passione per la letteratura, aveva dato ordine ai 72 sapienti ebrei venuti ad Alessandria, di trascrivere in greco tutti i testi ebraici esistenti. Così, un certo numero di racconti profani, ai quali gli Ebrei non avevano mai attribuito autorità divina, erano stati introdotti nella Versione dei Settanta. La cristianità nascente non aveva sempre saputo discernere il carattere extra-canonico di questi testi. La lettura dell'epilogo del 2° libro dei Maccabei prova la natura fantastica di questa antologia di letteratura ebrea, senza dubbio interessante per l'epoca che fa rivivere, ma totalmente diversa dalla santa Scrittura nella sua essenza:
«Terminerò qui la mia narrazione. Se è bella e completamente esplicata, e ben secondo il mio desiderio; se è mediocre e comune, è perché non potevo fare meglio. Così come è nocivo bere soltanto vino o soltanto acqua, ma è piacevole bere acqua e vino misti, allo stesso modo si deve presentare un racconto che affascina l'orecchio dei lettori. Termino dunque qui.» (2° Maccabeo 15:38-40). Anche Girolamo, come molti altri, riconobbe l'aspetto leggendario di questi libri; li tradusse, ma li fece precedere da una nota esplicativa.
È il «Prologo Galaeto» che, durante tutto il Medioevo, i copisti riprodussero come intestazione dei due libri di Samuele: «Qualsiasi opera che non figuri fra i 24 libri della Bibbia ebraica deve essere considerata apocrifa, cioè non canonica». Si deve dunque a Girolamo l'applicazione di questo termine «apocrifo», tratto dal greco apokrupha = nascosto, segreto, per estensione: non autentico.
A questo proposito, si legge nel 6° articolo della religione della Chiesa anglicana:
«Secondo Girolamo, la chiesa può trarre ispirazione da questi libri, come esempi di vita o istruzioni pratiche, ma non deve servirsene per stabilire una qualunque dottrina».
L'opera di Girolamo fu portata a termine nell'anno 405. Egli consegnava così alle future chiese d'Occidente un tesoro di grande valore: la Bibbia Vulgata latina. Tuttavia, essa non fu affatto apprezzata mentre il traduttore era ancora in vita. Allontanato da ogni responsabilità ecclesiastica a motivo delle sue posizioni ferme in materia di dottrina, Girolamo vegetò in miseria fino alla morte, avvenuta nel 420.
Le generazioni che seguirono rimasero tenacemente legate alle traduzioni latine anteriore a Girolamo, in special modo alla versione Itala (III o IV sec.); pochi si preoccuparono veramente della Vulgata, il cui valore fu riconosciuto pienamente solo nell'VIII sec. Da allora in avanti, la chiesa romana se ne fece la depositaria e la propagatrice; la Vulgata diventò la sua versione ufficiale; Girolamo fu canonizzato. Fino ai tempi moderni, il cattolicesimo approvò soltanto le traduzioni seguite sulla Vulgata. Così essa fu ricopiata migliaia di volte, fino al momento in cui Gutenberg, l'inventore dei caratteri mobili, riservò alla Bibbia latina di Girolamo l'onore di essere il primo libro stampato (1456).
Prima di ritornare al periodo di storia che ci interessa, permettete una breve incursione nell'epoca movimentata del XVI sec., che seguì la riforma.
Al Concilio di Trento (1546-1563) le autorità ecclesiastiche riunite ratificarono l'esclusività della Bibbia Vulgata come versione ufficiale della chiesa romana; ma ebbero cura, innanzitutto, di eliminare la nota introduttiva di Girolamo a proposito degli Apocrifi. A questi libri si attribuì una pretesa ispirazione divina. Il concilio di Trento conferì a questo libri il titolo di «deuterocanonici» (secondo canone).
La chiesa di Roma intendeva, da un lato apporre ai riformatori una Bibbia «più completa» contenenti libri supplementari, dall'altra trarre dagli Apocrifi il fondamento scritturale necessario a certe dottrine tendenziose che non poteva giustificare sulla base dei 66 libri ispirati (la venerazione dei santi, la legittimità delle indulgenze e del purgatorio, l'autorità della tradizione, le preghiere per i morti, ecc.).
Abbiamo dunque dovuto ricordare una successione di fatti storici risalente a Tolomeo Filadelfa nel III sec. a.C., passando attraverso Girolamo nel IV sec. e giungendo alle decisioni prese a Trento nel XVI sec., per comprendere perché le Bibbie cattoliche moderne contengono libri che non sono presenti nelle altre edizioni. secondo il metodo scelto per definirli, essi sono in numero di 5, 11 0 13. In certi casi, gli scritti supplementari sono direttamente integrati o all'uno a all'altro dei libri biblici, in altri, sono pubblicati a parte, sotto un titolo specifico.
Questa è la lista completa:
- 1 Esdra
- 2 Esdra
- Tobia
- La storia di Susanna
- Bel e il dragone
- Giuditta
- 2° Ester
- La saggezza
- Baruch
- L'Ecclesiastico
- La preghiera di Manasse
- 1° Maccabei
- 2° Maccabei
Ricordiamo che all'inizio del XIX sec., le Società Bibliche hanno incorporato nei loro statuti un articolo con il quale si impegnavano a stampare Bibbie senza Apocrifi (1826). È ancora più spiacevole dunque sapere che gli editori cattolici e protestanti che hanno pubblicato congiuntamente la Bibbia Ecumenica (TOB), vi hanno aggiunto questi libri, responsabili di tanta confusione, inserendoli fra i due Testamenti.
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